Si presenta sul palco come un menestrello in procinto di intrattenere una corte e intona
Eppur non basta, leit motiv del suo concerto
d'esordio musicale nonche' tema melodico ricorrente.
Marco Parente pare un novello Jeff Buckley per la modulazione della voce
e per il dolce vizio di piegare lunghezza e forma delle parole alle sue
esigenze melodiche: vizio che spinge alle estreme conseguenze fino a
cantare in una lingua che non c'e'.Dal vivo, tra le modulazioni di
frequenza si perde sicuramente qualche verso ma non il senso del discorso.
Parente e' pronto a danzare intorno alle sue composizioni con uno sguardo lucido
e curioso sospeso tra emozione e introspezione,grazia malinconica e piglio vivace,
tradizione cantautorale e rock.Si distende e si impenna in sintonia con i suoi
musicisti: particolarmente complici le viole di Erika Giansanti (quella piccola)
e Paolo Clementi (quella grande); Buone prestazioni sigla il momento
più espressivo del concerto che si chiude come il disco con i battiti della
grancassa, pulsazioni potenti come quelle del cuore.
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