Si presenta sul palco come un menestrello in procinto di intrattenere una corte e intona Eppur non basta, leit motiv del suo concerto d'esordio musicale nonche' tema melodico ricorrente. Marco Parente pare un novello Jeff Buckley per la modulazione della voce e per il dolce vizio di piegare lunghezza e forma delle parole alle sue esigenze melodiche: vizio che spinge alle estreme conseguenze fino a cantare in una lingua che non c'e'.
Dal vivo, tra le modulazioni di frequenza si perde sicuramente qualche verso ma non il senso del discorso. Parente e' pronto a danzare intorno alle sue composizioni con uno sguardo lucido e curioso sospeso tra emozione e introspezione, grazia malinconica e piglio vivace, tradizione cantautorale e rock. Si distende e si impenna in sintonia con i suoi musicisti: particolarmente complici le viole di Erika Giansanti (quella piccola) e Paolo Clementi (quella grande); Buone prestazioni sigla il momento più espressivo del concerto che si chiude come il disco con i battiti della grancassa, pulsazioni potenti come quelle del cuore.
Da "Musica", Aprile 1997
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