Marco Parente
Intervista su Neve ridens
Magazzini genrali, Catania 14-10-2005

da Il Cibicida (www.cibicida.com)

14-10-05: ore 20, la redazione de Il Cibicida arriva ai Mercati Generali di Catania trovando Marco Parente sul palco che strimpella la sua chitarra nei primi accenni di prove. Noi riusciamo letteralmente a strapparlo dall’inizio del soundcheck per un’intervista incentrata principalmente sui temi della sua ultimissima uscita discografica “Neve Ridens”. L’album, che ha visto le stampe nel recente settembre, è solo il lato A di un doppio che vedrà l’uscita del gemello per il febbraio 2006. Sull’ambiguità del titolo, sul connubio musica/testi, sulle origini del cantante e sulla politica, si incentra una chiacchierata stimolante, schietta e che ci apre più di una porta per il mondo/i di Parente.

Dunque, cominciamo dalla fine: il tuo ultimo lavoro Neve Ridens</b> è diviso in due parti. Questa prima uscita mi pare abbia un suono piuttosto cupo che richiami forse la freddezza della neve. Il prossimo sarà, invece, aggressivo come una iena (ridens)?

Secondo me è l’esatto contrario. Il primo “Neve Ridens” è un album non dico aggressivo, perchè è una parola un po’ forte, ma mi pare che abbia a che fare con la reazione, quindi con il movimento. Un disco, scuro si, ma io preferisco piuttosto pensarlo come secco e pungente; e lo si vede anche nell’approccio dei testi e della musica...

E quindi il secondo sarà invece...?

Molto più tranquillo, decisamente più tranquillo nei toni, con delle atmosfere dilatate e canzoni ancora più minimali. Pensa che ci saranno anche episodi di strumento e voce. Questo primo è invece il risultato di un lavoro di band, più organico e netto.

A proposito di concetto di band, era da un po’ di anni che non avevi una formazione fissa...

Esatto, è vero, ne ho sentito il bisogno naturale dopo le collaborazioni più disparate: orchestra, big band, addirittura con un dj. La voglia era di asciugare, naturalizzare, essenzializzare il sound insieme alle persone che sono un po’ il distillato di questi ultimi anni. Il risultato, alla fine, è il suono di un gruppo dove ogni musicista ha una sua propria fortissima dignità, identità e personalità.

I testi di “Neve Ridens” non compaiono all’interno del booklet, è una ricerca di quel minimalismo che ultimamente sembra essere diventato di moda?

No, non è un questione di minimalismo. E’ stata un’esigenza che è venuta naturale rispetto alla scelta delle parole; lo stesso titolo è ambiguo: sono due parole che, per me, diventano una. Comunque alla fine il senso era quello di andare sempre più nella direzione della musica… e che anche la parola diventasse musica. Per carità, non vuol dire che non c’è un significato o una parte letteraria vissuta e consapevole, però mi piace l’idea che si possa arrivare a quel senso delle parole non semplicemente leggendole ma ascoltandole.

Quindi i tuoi testi non andrebbero letti senza la musica, magari come una poesia?

No, io non lo farei mai. Se ti dovessi dire il testo di una mia canzone, se te lo dovessi dire e non cantare, probabilmente non ne ricorderei le parole. Il tutto si integra in questo primo “Neve Ridens”, mi piaceva l’idea dell’eccessiva ambiguità. E poi è stata un’idea del grafico di lasciare delle pagine bianche e quello specchio deformato alla fine del booklet. Penso, però, che nel secondo atto inseriremo i testi e forse anche quelli del primo.

Quanto c’è di politico nel tuo ultimo lavoro? “Wake up” sembra proprio un campanello d’allarme. Riesci ad individuare il pericolo, a toccarlo? Oppure, come un terrorismo, rimane qualcosa che c’è ma non si vede?

Eh si, il pericolo sta nella disattenzione, per l’appunto “la meraviglia e la concentrazione”. Sembrerebbe pessimista dirlo, ma mi pareva un accostamento efficace e forte quello di vederci in un inferno in cui è fondamentale, soprattutto, essere presente a se stessi. In tutti i casi non penso di aver mai scritto testi politici dichiarati, diretti. Sono sempre rimasti a livello individuale, etico, ma personale, senza bandiera e senza movimenti a cui appoggiarsi. Solo tu come essere umano, come vuoi vivere, come devi vivere e come puoi vivere. “Wake up” è, come hai detto tu, un campanello d’allarme che cerca di spronare tutti a una maggior concentrazione e lucidità, perchè qui non si sta parlando del ladro che ti ruba la macchina, ma molto di più. Il sorriso e lo specchio sono tutte metafore, in qualche modo, di dimensioni che s’affrontano nel quotidiano.

Parlami invece de “Il posto delle fragole”. C’è stato nella tua vita un posto delle fragole o, comunque, un viaggio nei ricordi e nel passato simile a quello del protagonista del film di Bergman? O forse era solo un inno al capolavoro del regista svedese?

Boh, forse si c’è stato. C’è un dejavù a livello di ricordi e in quel film in particolare. Anche perchè mia madre è svedese e quindi, sono certo, esiste un gancio mentale molto forte per me. Il protagonista di Bergman è però alla fine del suo cammino e della sua vita, io sono ancora giovane per fare un esame esistenziale cosi attento e poetico; di base mi ha sempre colpito la poetica di quel film e come riesce sempre ad accarezzami l’anima. Però considero questo brano esclusivamente un omaggio al grande Bergman.

In “Trasparente”, ed in particolare nella canzone “Come un coltello”, fai riferimento alle primissime battute del film American Beauty. Qual è il tuo rapporto col cinema in generale, visto che lo hai citato in almeno due occasioni?

E’ vero, è vero. Beh, è molto forte, a tal punto da motivarmi la scrittura di testi ed ispirarmi le atmosfere della musica. Il cinema mi piace molto e mi piace il fatto della terza dimensione dell’immagine e di un altro mondo che ti viene davanti. Certo, non sono un intenditore ne un cinefilo, tanto che alle volte mi piace vedere anche delle gran cagate, a dir la verità penso che anche in quelle si può trovare qualcosa.

Tu sei nato a Napoli ma vivi a Firenze ormai da anni. Ti senti frutto, come persona e musicista, dell’incontro tra due città completamente diverse nello spirito e nella maniera di vivere?

Beh, in parte penso di si, anche se devo dire che sono andato via da Napoli a sette anni, praticamente un bambino. Quindi non ho mai avuto un gran richiamo a ritornarci, per lo meno per venti anni fino a che non mi sono strutturato come persona, ed allora sono ritornato lì qualche volta. Ho scoperto un'altra Napoli ma ho conservato dei flash molto forti. Forse, però, sono ancora più forti quelli per la Svezia in cui sono andato cinque, sei volte, ma dove non ho vissuto. E’ un po’ un’ indole, credo, e forse è quello l’incrocio vero che mi ha influenzato. Mio padre napoletano e mia madre svedese.

Visto che parliamo di passato, quanto ti hanno dato tre personaggi come Manuel Agnelli, Paolo Benvegnù e Lindo Ferretti? Si possono definire tra i maggiori rappresentanti del rock in Italia, e soprattutto, c’è una situazione rock in Italia?

Se c’è è molto individualista e io non so se ne faccio parte e nemmeno se voglio. Ferretti non lo conosco poi così bene. Lo so, appaio nei credit e nelle biografie dei CSI come batterista, ma in quel caso il mio ruolo era quasi quello di un turnista. Insomma non ho avuto un reale confronto con Ferretti; certo la stima c’è ed è grande per una figura dall’alto contenuto contraddittorio come la sua, che poi forse è quello che mi piace di più di lui, oltre al grande talento. Con Paolo (Benvgnù ndr), invece, è stata una specie di storia d’amore, tra molte virgolette. Ci siamo ritrovati a confrontarci in un momento difficile per entrambi: lui lasciava gli Scisma, io ero in crisi con il Consorzio (Consorzio Produttori Indipendenti) che stava crollando a pezzi; tutti e due eravamo quindi abbastanza spaesati e confusi. Così abbiamo unito queste due fragilità ed è venuta fuori una bella collaborazione, anche se momentanea. Dovevamo, prima o poi, riprendere la nostra strada, come poi è avvenuto. Ed infatti lui ha incominciato la sua carriera da solista ed io, poi, sono approdato a Manuel (Agnelli ndr) e a quel “recipiente” dove mettere tutto ciò che volevo fare. Manuel è una persona con cui ho un rapporto costante e profondo. Sin dall’inizio c’è stata tanta chiarezza, ed è quello che io volevo da lui. Ti dice le cose nel bene e nel male rispettando sempre la tua visione. E poi la sua voce è impressionante.

Ovunque viene accostata la tua musica a quella dei Radiohead, ti sei rotto le palle di sta cosa?

Mi potrebbe anche lusingare. Ho amato e amo moltissimo i Radiohead e la loro musica. Questo dei paragoni è un vizio tutto giornalistico per ovviare a dei buchi di conoscenza. Prima dei Radiohead dicevano Jeff Buckley. Io, comunque, sento di avere con questi artisti un’affinità che, oltre al genere, si riferisce all’approccio musicale. Nell’aria ci sono delle cose che si condividono e che poi ognuno le fa a modo suo.

Ma la tua rivoluzione dura ancora o è fallita?

Ma sai (ride), quella è una cosa quotidiana, e cioè provare a descrivere qual è l’atto migliore che puoi fare per te stesso ogni giorno. Alle volte va meglio altre peggio, alle volte dura altre no. Poi fortunatamente ci sono sempre quei giorni che ti svegli la mattina e ce la fai. Certo è dura essere cosi buono tutte le mattine, tutti giorni. Però in questo momento mi sento molto molto energico, con lo spirito alto.

E concludiamo con la domanda di rito: sei ti dico Cibicida tu a che cosa pensi?

Mah (sorride e sbircia il volantino col nome del sito), mi viene in mente il suicidio del cibo...


Live dal Live a Catania, 14 Ottobre 2005 Neve ridens


di Riccardo Marra (da Il Cibicida, www.cibicida.com)

All'improvviso il mare si è fermato...