In occasione del primo album live: intervista esclusiva e monografia dedicata a Marco Parente.
Non c’è bisogno di un’occasione speciale per intervistare Marco Parente. Però c’è, e pure
importante: l’uscita del suo primo album live, L’Attuale Jungla.
Ecco il resoconto di un breve scambio via e-mail col musicista parteno-fiorentino. A cuore aperto, come sua abitudine.
Tutti i mo(n)di possibili: Intervista a Marco Parente
Qualche sera fa Marco Parente mi ha ancora una volta stregato, sul palco con una band di cinque
elementi (fiati, tastiera, basso, chitarra, batteria), di fronte ad un pubblico (ahimé, ahinoi) poco
nutrito. Ma fa lo stesso: l’intensità sgangherata e solenne, le interpretazioni sospese tra grazia e
deformità, tra fedeltà al modello e disinvolta rivisitazione, la tenerezza stordente a cui sembra
aggrapparsi con tutto il corpo, e la rabbia improvvisa di sferzanti escursioni improv. Questo ed altro
- che a dirle tutte facciamo notte - è la calligrafia di Marco, il modo in cui sa stringerti il cuore.
Finito il concerto stavo così bene che ho rinunciato alla lotta fisica e diplomatica (che palle questi
buttafuori, hanno visto troppe volte The Bodyguard) per avvicinarlo. L’ho fatto un paio di giorni
più tardi, via e-mail. Ha risposto con grande disponibilità ed entusiasmo, combattendo con le bizze
del suo PC e i pressanti impegni promozionali, senza perdere la voglia di scavare sotto la pelle del
consueto.
Nel giro di pochi mesi hai interpretato almeno tre situazioni live diverse: con una grande
orchestra, l'ibrido teatrale/digitale de Il Pesce Ha Parlato, in sestetto improv/rock. La
dimensione del concerto, che per molti tuoi colleghi significa una lotta contro limitazioni e
difficoltà, sembra la tua dimensione espressiva ideale, ci sguazzi come un... pesce, appunto
Credo di avere ancora un rapporto inquieto con la mia musica, e forse è proprio questo che mi porta
a cambiare continuamente. Non credere però che non subisca le molte difficoltà della dimensione
live, anche se spesso sono proprio le imprese più difficili e il come affrontarle a provocare la
fantasia. Per quanto riguarda Trasparente questo tipo d'approccio poi ha avuto ancora più possibilità
di sfogo, visto la sua natura così sfaccettata probabilmente, appena terminato il lavoro infatti il
desiderio maggiore era proprio quello di sviluppare in un unico evento ogni singola anima che
compone il disco. E così è stato, almeno nella mia testa!
A proposito di Trasparente: cosa ne pensi a distanza di un anno, tenuto conto anche del
"feedback" di critica e pubblico?
Penso che siano state dette molte sciocchezze in bene e in male, ma questo è normale credo, per un
disco che ha avuto più esposizione. Per quanto mi riguarda invece considero Trasparente
emotivamente pulito e senz'alcun rimorso o rimpianto, eticamente ONESTO.
C'è una tensione continua tra le parole (anche il loro stesso suono) e la struttura delle tue
canzoni. A volte sembrano sgomitare per imporsi, in altri casi sembrano come arrese,
disarmate e disarmanti. Talvolta il senso esplode in faccia come uno schiaffo
(Scolpisciguerra), talaltra si chiude a riccio, comunque più intimo che ermetico (Farfalla
Pensante). Che succede quando componi, Marco?
Bella domanda! Ma non so rispondere, è come chiedere a un innamorato cos'è l'amore. Troppo
coinvolto. L'unica cosa che mi ricordo è di lunghissimi silenzi prima di agire.
Pezzi come Succhiatori o Derivanti mi sembrano il modello più autorevole e plausibile di
canzone "impegnata", perché poetiche e non retoriche, quindi frutto di un confronto
profondo e non mediato con l'oggetto che le ha ispirate.
Grazie! Questa è la cosa che avrei sempre voluto sentirmi dire su un certo tipo di canzone"politica",
ed è proprio questo il mio punto di vista: una presa di posizione e azione poetica e non politica,
penso che questo sia molto più scomodo come atteggiamento di tanti facili slogan ad effetto
popolare... Sicuramente meno remunerativo.
Se mi chiedessero che "genere" di musica fai inizierei a sparare una raffica di etichette fino
a farmele sembrare inutili, insensate. E' quello che si prova ad un tuo concerto: quando smetti
di chiederti se sia rock, o folk, o improv-jazz, o progressive o musica da camera, è allora che
entri in contatto. A proposito, che genere di musica scrivi?
Una musica che mi permetta di dire sempre la stessa cosa in tutti i modi possibili nell'unico mondo
possibile.
CSI, Cristina Donà, Manuel Agnelli, Paolo Benvegnù, ed altri: ti è rimasta addosso qualche
impronta particolare?
La cosa più importante che scaturisce da un incontro è capire quanto sei disposto a mettere in
discussione ciò che pensi e fai in quel momento. Ognuno di queste persone, anche se
inconsapevolmente, lo ha fatto.
Amo tantissimo la tua versione di Ho Visto Nina Volare nel tributo a De André. Quanto
manca secondo te Faber alla musica - italiana e oltre - e perché?
Sono sempre più rare le persone che si portano avanti con coerenza dignità e rispetto. Soprattutto
questo di De André mi manca, anche se per fortuna ci rimane tutta la sua opera come buon esempio.
Hai introdotto la stupenda Michelangelo Antonioni, scritta da quel patrimonio dell’umanità
che risponde al nome di Caetano Veloso, con queste parole: “è la più bella canzone italiana
degli ultimi vent’anni, peccato che non sia stata scritta da un italiano”. Solo una battuta, o
anche una critica al carosello canzonettistico italiano?
Un po’ tutte e due, ma di più la riconoscenza per averla semplicemente scritta, la stessa che
probabilmente sentiva Caetano per Antonioni. Sono ormai così rare le canzoni pure che anche se ce
le troviamo davanti non abbiamo tempo e riflessi (dell'anima) per goderne fino in fondo e quel poco
di tempo lo sprechiamo spesso con patetiche nostalgie.
Un amico, italiano che vive e lavora a Londra da qualche anno, è rimasto molto
impressionato dall’importanza data alle materie cosiddette “artistiche” nelle scuole
(pubbliche e private) del Regno Unito. Recitazione, pittura, musica… Da noi sono considerate
una sorta di “guarnizione” all’attività didattica, quando va bene. Poi ti guardi intorno e
scopri che Gilberto Gil è ministro della cultura in Brasile (in questo momento neppure
ricordo chi sia il nostro… Forse Confalonieri?). Eppure l’Italia potrebbe vivere anche solo
della propria ricchezza e delle proprie tradizioni culturali. Cos’è successo, cosa succede?
Succede che la prima cosa che salta quando un paese è in crisi è proprio l'arte e i valori che si porta
dietro, perché superflui direbbe qualcuno, ma proprio questa è l'essenza, che non da’ da mangiare
ma potrebbe.
La musica che ascolti somiglia in qualche modo alla musica che fai? Ti tieni aggiornato, tasti
il polso della contemporaneità?
A questo punto penso di aver capito di procedere per riconoscimento Inconscio. Mi spiego:quando
mi piace molto una musica è perché ne riconosco l’affinità, quello che ci fa scegliere un intervallo
di note piuttosto che un altro, un suono o uno strumento. E questo esula dai generi, dal tempo e
dalla storia, questo crea una specie di fratellanza al di là delle politiche delle quali sembra non
possiamo fare a meno per riconoscersi. In questo modo per me è naturale mettere sullo stesso piano
Miles Davis e i Radiohead, Caetano Veloso e Robert Wyatt ecc ecc. Nomi che appartengono a
periodi generi e culture diversissime, ma probabilmente attratti dallo stesso tipo di "GUSTO".
Quindi sì! Penso che la musica che ascolto somiglia più di quanto si possa pensare (e a cosa si possa
pensare) a ciò che amo. Per quanto riguarda la contemporaneità uso lo stesso metodo,
"riconoscimento" e buoni e informati amici.
Guardandoti mentre in Fuck (He)art, Let’s Dance picchi sul microfono con… Cos’è, una
semplice bacchetta? Insomma, sia quel che sia, mentre il pezzo strizza l’occhio ad una sorta di
“art techno”, tu persegui il grado zero di una drum machine, un battito primordiale riportato
in qualche modo al suo alveo “umano”. Sbaglio o qui c’è qualcosa del tuo rapporto con la
musica elettronica?
L'ironia di Fuck (He)art sta più che altro nella parte del testo (la frase è un titolo di una mostra di
Ferlinghetti), mentre l'esperimento musicale, specie della versione dal vivo, si confronta con
entusiasmo e curiosità verso l'oceanico mondo dell'elettronica. Il beat, il suono e il volume come
elementi fondamentali ti portano a esplorare sensazioni e approcci opposti a quelli ai quali sono
abituato, ma non per questo meno importanti, semplicemente diversi! Devo dire però che
ultimamente non sono molto interessato all'ascolto di musica elettronica, questa estrema fisicità dei
suoni un po’ mi disturba e fiacca.
A proposito: Pillole Buone è stato un’autentica sorpresa. Rispetto a Trasparente è allo stesso
tempo sconvolgente e rispettoso, innesca strani processi di rievocazione/rielaborazione. In che
misura vanno divisi i meriti fra te, Brusci, il gruppo Timet…?
Come ho scritto all'interno della copertina, io in questo caso sono stato il mezzo che giustifica il
fine. L'idea delle Pillole è di Lorenzo, io ho voluto e seguito quasi da esterno tutto il lavoro per poi
servirmi della mia posizione discografica per concretizzarlo. Spero in futuro di portare avanti questo
binario parallelo, e che possa confrontarsi ancora e sempre più anche con altre discipline:
sonorizzazioni, istallazioni, dvd ecc.
Al di là delle polemiche di ordine legale o peggio ancora morale, la pratica del file sharing (o
peer-to-peer) rappresenta anche un momento di riflessione circa la “posizione” della musica
nel cosiddetto “sistema”. Come interpreti questa situazione?
Io sono per la condivisione totale di una musica, più riusciamo a spersonalizzare l'idea dell'arte
come prodotto, più si ritornerà a una musica pulita... Ma questa è utopia! Ma anche l'utopia è una
meta.
Note bio/discografiche
Marco Parente è nato nel 1969, a Napoli, ma vive a Firenze da oltre un decennio. Proprio nel
capoluogo toscano consuma le prime esperienze sonore (con Andrea Chimenti, nel gruppo
Otto’p’Notri), fino alla collaborazione in Ko De Mondo (1994) e Linea Gotica (1996) dei C.S.I. in
qualità di percussionista.
L’esordio in solitario risale all’anno successivo.
Eppur Non Basta (1998, Sonica/CPI)
Uscito per i tipi del Consorzio Produttori Indipendenti, mette già in mostra la scrittura inconsueta e
trepidante di Marco, sbilanciata verso una dimensione teatral-onirica che ammalia e inquieta
(L’Ultima Cena, Il Mare Si E’ Fermato), sulle tracce di un’espressività così nuda e sincera da
confondere (Sopra Sopra, la “cover” di L’Aggio Scritt’a Canzone a firma De Filippo), anche se
certe soluzioni d’arrangiamento pagano dazio al voler strafare (è ad esempio stucchevole
l’insistente presenza degli archi, e talora accessorio l’utilizzo dei fiati).
Album d’esordio più che dignitoso, comunque, nel quale canzoni smaniose e accattivanti come Eri,
Musica Per e soprattutto Oio (in duetto con Carmen Consoli) suonano a distanza di anni come i
frutti acerbi di una sensibilità non ancora a fuoco, inconsapevole di sé. (6,7/10)
L’ambiente si accorge di lui e iniziano a fioccare le collaborazioni: lo chiamano i La Crus (coi quali
interpreta Gharbzadegi per il tributo del Consorzio Produttori Indipendenti a Robert Wyatt), Manuel
Agnelli, ancora CSI, Bandabardò, Cristina Donà… In realtà non smette di lavorare all’opera
seconda, per la quale occorre però aspettare il 2000.
Ne vale la pena, perché il salto di qualità è sconvolgente.
Testa Dì Cuore (1999, Sonica)
Sono passati tre anni, sufficienti a portare in superficie tutta l’irrequietezza e la febbrile lucidità di
Marco. Fin dall’iniziale Falso Movimento la tensione delle trame sonore (trasfigurazioni sintetiche,
archi serrati, chitarre in riverbero, foschi tracciati di basso, percussioni fuori ordinanza…) e la
misteriosa ruvidità del testo (come una poesia recitata con lo scudiscio) spostano la linea di fuoco in
primissimo piano, nel cuore di un conflitto intimo e sociale, tra irrisolte contraddizioni esistenziali e
la scabra evidenza dell’inumano che tutto muove.
La sola Succhiatori vale una carriera di tanti sedicenti (al limite seducenti) cantautori: andatura da
tango claudicante, sventagliamenti percussivi, archi ombrosi, corde mangiucchiate dalla distorsione,
la disarmante amarezza del chorus e quell’autentica esplosione centrale che scompagina la struttura
in un bailamme di parole sputate con sdegno accecante.
Inoltre: è splendido il duetto con Cristina Donà in Senza Voltarsi, prodigiosi il crescendo
iridescente de La Guarigione e quello esasperato della title track, ben dentro ai propositi dell’opera
le concessioni pop di Karma Parente, coinvolgente fino alla commozione la conclusiva Rampe Di
Slancio. Non una traccia debole, tutte a definire un concept senza i difetti del concept, una presenza
sonora e poetica fragile e veemente, ragguardevole in senso assoluto, addirittura imprescindibile
alla luce di uno scenario come quello italiano. (8,3/10)
Successivamente si infittiscono le deviazioni in ambito artistico/letterario, prima celebrando la beat
generation nel tour PullMan My Daisy (alla presenza di mitologici guru come Lawrence
Ferlinghetti e Alejandro Jodorowsky), quindi collaborando al progetto Fuck Art, Let’s Dance (di
Ferlinghetti). In questo stesso periodo stringe sempre più i rapporti con Paolo Benvegnù e Manuel
Agnelli, che molto incideranno sull’esito del terzo lavoro, Trasparente. Prodotto artisticamente da
Agnelli, l’album qualitativamente non delude, ma rimane l’impressione che l’abito da “alternativo
di classe” indossato da molti pezzi ne svilisca le potenzialità. Sensazione puntualmente confermata
perché messa a nudo e rovesciata dalle successive esibizioni live, nelle quali Marco si riappropria
delle canzoni, le spoglia e le riveste con la consueta palpitante, dissociata, imprevedibile genialità.
Di pochi mesi più avanti è la pubblicazione del particolarissimo mini Pillole Buone, per il quale si
rimanda alla recensione.
Quindi, è storia recentissima, l’uscita del primo disco dal vivo di Parente: L’Attuale Jungla (2004,
Mescal).
Trasparente (Mescal, 2002)
Si fa un bel dire che dalla valutazione di un disco dovrebbero essere tenuti fuori certi infingardi
sentimenti quali l'aspettativa o l'amore, ma da e per Marco Parente l'una e l'altro avevano raggiunto
livelli ben superiori ad una tollerabile media, a giustificare i quali basta ricordare lo stupendo Testa
Dì Cuore, col quale Marco ha forse realizzato il disco più significativo, intenso e moderno di
cantautorato rock italiano dell'ultimo lustro: la spregiudicatezza delle forme, lo spietato assalto delle
liriche, l'originalità inquieta dell'interpretazione, la grana rigorosa e scabra delle esecuzioni…Da
allora è stato un susseguirsi di progetti musical-teatrali che lo hanno visto collaborare tra gli altri
con Cristina Donà, la Company Blu, i macedoni Agushevi, Stefano Bollani, Paolo Benvegnù (ex
Scisma) e finalmente il ritorno discografico con questo Trasparente prodotto da Manuel Agnelli,
nientemeno. Insomma, che volete farci, mi attendevo tantissimo. E infatti. E invece.
Da un lato c'è il segno evidente di una maturazione che potremo dirsi felicemente compiuta
(soprattutto nel saper attribuire ad ogni climax l'opportuno e non scontato dispositivo strumentale),
dall'altro l'irritante succedaneità di certe situazioni che rimandano a strutture talora davvero troppo
riconoscibili. Il punto non è certo mettersi a questionare se la vibrante Come Un Coltello somigli (e
quanto!) nell'incedere a Exit Music dei Radiohead, oppure se il bel singolo La Mia Rivoluzione
rimandi più a Karma Police o ad Annarella dei CSI: il fatto è che laddove la forma si mette ad
olezzare di seconda mano, di ansia da format, di tensione normalizzatrice, le emozioni - in maggior
misura quelle vischiose, selvatiche e urticanti di Parente - seguono a ruota, finendo con l'apparirci
stanche, disinnescate.
Il tutto è in parte riscattato dalla preziosità imprevedibile di certe intuizioni sonore, vedi il theremin
di Marco Tagliola, i trepidi fondali allestiti dai legni della Agushevi Orchestra nella spigolosa
Scolpisciguerra o i defilati sentieri jazz imboccati dalle due tracce conclusive - al sapor di
progressive (Adam Ha Salvato Molly) quando non in bilico su struggenti mestizie para bandistiche
(Davvero Trasparente) - entrambe a cura di una vivida Millennium Bugs. Nel mezzo, qualche
episodio singhiozzante (la teatralità allibita di Anima Gemella e W Il Mondo aveva conseguito esiti
ben superiori - almeno nel chimismo tra musica e poesia - in Testa Dì Cuore) e alcuni indubitabili
gioielli: Derivanti, ad esempio, è portatrice di una delicatezza nuda e sofferta, come un'enorme
disarmante desolazione; o la stupenda Farfalla Pensante, alla quale perdoniamo volentieri
l'eccessiva reverenza per le ballate di The Bends; oppure la convulsione meticcia di Fuck (He)art &
Let's Dance, raccapricciante ibrido analogico-sintetico che rielabora un assioma di Ferlinghetti
inasprendolo di smanioso sarcasmo antidanzereccio.
Insomma, tra vibrante eclettismo e allibenti discontinuità il disco si lascia comunque ben ascoltare,
portatore di una certa spossatezza espressiva che non manca di affascinare salvo poi rivelarsi alla
lunga un po' troppo spuntata, non so più se calligrafia o effetto collaterale. Peccato, perché Marco è
talento puro, e il terzo album una prova troppo importante per finire sprecata così. Poco più che
sufficiente, con (quasi) immutata fiducia. (6.5/10)
Pillole Buone EP (2003, Mescal)
Curiosa operazione firmata Marco Parente che affida ad alcuni druidi ipermoderni il compito di
ristudiarne la già piuttosto inconsueta proposta sonora. Tu chiamali se vuoi remix, ma qui il pickup
(virtuale) rigira nella piaga con intenti ben più stratificati ed esiti rivoluzionari.
Oltretutto, siamo al cospetto di un espresso invito a manipolare "creativamente" il materiale sonoro
disponibile sul sito www.marcoparente.it. Musica quindi "aperta", in attesa di manipolazione, di
ulteriore intelligenza. I limiti (o la loro insignificanza) ci vengono additati dalle quattro tracce qui in
programma, la prima delle quali è un lungo processo di omeopatizzazione dell'intero Trasparente,
ultima fatica del partenopeo-fiorentino, qui ridotto a flash frammentati, trasfigurati, liofilizzati e
distorti con il tutt'altro che piccolo aiuto del sodale Lorenzo Brusci (già curatore degli allestimenti
live di Marco). Nei fatti Trasparente viene ricondotto ad un pugno di particelle mnemoniche
strappate al loro torpore, estorte al reticolo di sogni e segni a cui affidavano l'ormai placido sostare
nel brodo dell'anima (la nostra), il senso ravvivato, la forma ricodificata, la sospensione spaziotempo
compressa all'essenziale.
Non certo un facile ascoltare, a tratti fautore di soluzioni sgradevoli o - a parer mio - non
appropriate, addirittura ostico per non dire inadatto a chi non conosca l'ultima fatica di Parente,
eppure disturbante in senso nutritivo, gelido ma febbrile, alieno ma vivido. Lo stesso potremmo dire
per i remix di Proiettili Buoni e W Il Mondo, ad opera sempre del Brusci coadiuvato dal gruppo
Timet, in cui l'obiettivo sembra cogliere la scheggia e lasciarla rifrangere nelle mille sfaccettature
dello specchio infranto (stomp cibernetici, micro/poli ritmiche, incubi industriali, fibrillazioni
techno...), per saggiarne la pregnanza, il peso vitale, la forza d'irripetibile segno tra le cose.
Più "ordinario" il lavoro di D. Rad e Taketo Gohara su Anima Gemella, in linea con certa technotrance
assediata da incubi & inquietudini un po' wave e un po' Warp: va da sé che il pezzo si lascia
maggiormente riconoscere nella sua imprendibile e malsana bellezza.
Dischetto interessante soprattutto per gli sviluppi che lascia intravedere, confermando la vena di
Parente affacciata su mille imprendibili soluzioni. (7.0/10)
L’Attuale Jungla (2004, Mescal)
Registrato l’estate scorsa in varie tappe del tour assieme alla Millenium Bug Orchestra di Mirko
Guerrini in formazione “big band”, propone un ideale “best of live” di Parente in nove tracce più
l’inedita Inseguimento Gemello, che apre l’album nel solco di un’amarezza stupefatta, critica al
vortice sbranatempo del moderno vivere, alla dissoluzione delle mete (emozioni, valori…) nella
sostanza che si fugge tuttavia.
Questa specie di folk-rock urgente, inasprito da corde rugginose e trasfigurato da folate di trombe e
bagliori di piano, dice già molto di quello che sarà l’intero lavoro, pur riservando in ogni pezzo la
sorpresa di orchestrazioni corroboranti e invasive. Si prenda lo splendido lavorio ambientale
operato in Come Un Coltello dalle percussioni, dai sax, dal theremin (è un theremin?), dai
cinematici fondali degli ottoni, con quella lunga coda jazz-blues in cui sguazzano una tromba
“davisiana” e un’armonica “morriconiana”, con la voce di Marco a inseguire a singulti e sbuffi.
O il bailamme da jungla (ebbene sì) metropolitana su vibrazione elettrostatica della già
fisiologicamente aliena Fuck (He)art & Let’s Dance, qui innervata di strepitosi guizzi psych.
L’orchestra non è guarnizione o contorno, è suono nel suono, polpa nella polpa in cui è ficcato il
nervo, nuovo ventaglio attitudinale che prevede fughe impro e bordoni ipercromatici, dissonanze
pilotate e fantasmagorie armoniche, il tutto perfettamente organico come in Karma Parente, dove a
spasimi e strappi gli ottoni rispondono al duplice attacco di basso e chitarra, finendo col sembrare
l’arrangiamento più naturale possibile.
E allo stesso modo sa ritrarsi quando (non) occorre, come quando nell’incalzante W Il Mondo - su
tappeto di rhodes e percussioni - è appena un ghiribizzo di flauto e un mormorio di sax, prima di
montare quasi di soppiatto una palpitante emulsione di fiati. Che è quanto avviene più o meno ne Il
Mare Si E’ Fermato, una prim aparte in cui i fiati sono appena un respiro sottotraccia, quindi il
lancinante assolo di tromba e la sarabanda free-blues conclusiva.
A dispetto dell’apparente complessità, l’operazione suona naturale: forzare la struttura delle
composizioni a timbriche e squadernamenti inconsueti, saggiandone ad un tempo la consistenza e la
versatilità, straniandole, sottoponendole ad una specie di sforzo di adattamento che libera nuova
energia, strapazza il punto di vista consolidato.
Per questo l’esile e toccante congettura pop di Farfalla Pensante sembra quasi sbocciare a nuova
vita tra quei cascami di fiati e con quell’intermezzo bossa-funky che le apre il petto,
sdrammatizzandone la carica poetica, obbligandola a salire in groppa ad un disincanto terreno, ad
un sogno amaro e cangiante. Che è quanto capita anche a La Mia Rivoluzione, buttata in mezzo a
riff verticali di ottoni che sembrano una duplice fila di astanti, in mezzo ai quali si scioglie
acidissimo l’assolo di chitarra, e anche a Il Fascino Del Perdente, dove il tropicalismo angoloso
acquista luci torride e stordenti da delirio funky.
Perfettamente a suo agio - perché germogliata proprio siu queste basi - sembra invece la conclusiva
Adam Ha Salvato Molly: i versi spinti in alto a forza di carezze di trombe e sax e tromboni, poi un
nevrastenico bailamme col basso spianato, piglio jazz in escursione libera e assolo di sax soprano,
assolo di clarinetto, e intrecciarsi e fermare il convoglio e ripartire, le dinamiche smorzate, di nuovo
incendiate, poi il silenzio.
Marco ottiene un disco febbrile e intenso, ci offre un fotogramma rigorosamente mosso del suo
vivere (con) la musica, un essere passato di qui che vuol dire andarsene, spostarsi, cambiare binario,
ma anche e sempre la possibilità di tornare. Mai uguali. Continuamente vivi. (7,2/10)
A cura di Stefano Solventi
Si ringrazia per la collaborazione tutta la redazione di SentireAscoltare e, in particolar modo, Stefano Solventi.
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