Compri il cd ed in copertina c'è un'immagine astratta che sembra il profilo di un viso,
con sullo sfondo una parte di testo scritta in Latino. Lo apri e sorprendentemente ti
specchi sul retro del libretto interno che è argentato; poi scegli se preferisci
specchiarti nitidamente sul compact disc vero e proprio o di fianco, preferendo
il riflesso pedissequo coi colori ma sfocato coi tratti del volto.
piazzato, stupito e incuriosito apri il libretto che dopo quattro pagine bianche
ti riserva (solo?) i testi dell'album sovrapposti
l'un l'altro fintantoché rimangano leggibili solo
spezzoni di alcune frasi.
Scusate se mi sono dilungato così tanto in questa descrizione. No non mi sono confuso
tra la forma e il contenuto ma mi sembrava che non ci fosse niente di
meglio che questa metafora (o sineddoche fate voi), per raffigurare quest'ultimo
lavoro del partenopeo ma fiorentino d'adozione Marco Parente. La musica di
Neve Ridens (scritto con
una sottile linea a mo' di cancellatura
sulla seconda parola), difatti, sfugge agevolmente alle
catalogazioni, rende imprecise le descrizioni e insicure le
valutazioni perché non è semplice, e anche dopo numerosi ascolti
ci si accorge che la strada per una completa comprensione è ancora lunga.
Non che, stavolta, il Nostro abbia poi cambiato stile ed obiettivi più di
tanto, e chi conoscesse anche superficialmente le sue precedenti uscite
discografiche può confermarlo. Come sempre ascoltando le sue opere si è
trascinati da fiumi in piena in paesaggi oscuri e tenebrosi pieni di insidie
improvvise, dove spesso la regola si fa anti-regola, e la decostruzione del
motivo orecchiabile splende al suo parossismo riformando armonie insospettate.
Quest'album è breve ma forse non troppo, data l'intensità e considerando che è
il primo capitolo della duologia che si completerà il prossimo febbraio con
l'uscita di un altro Neve Ridens (stavolta con la linea
di cancellatura sulla
prima parola). Come dite? Questa è una scelta
anticommerciale? Beh questo lo hanno capito un po'
tutti che lo conoscono almeno un po'. La sua è musica aulica, è cantautorato
trasversale tra generi come la musica sinfonica. il rock, l'elettronica,
il jazz e chi più ne ha più ne metta. L'artista
dal canto suo oltre ad essere istrionico e geniale non fa mai niente per
ingraziarsi pubblico, ovvero: mai, e dico mai nessun compromesso d'alcun genere.
Spesso nel caso di molti autori dell'underground a me sconosciuti è capitato chi mi
mettesse d'avanti ad un netto: O lo ami, o lo odi; in questo
caso io devierei su un più congruo: O lo ami, o non lo capisci.
Scusate ma d'avanti ad una così potente vena creativa perlopiù incompresa,
sottovalutata e a volte persino osteggiata non si riesce a rimanere freddi arbitri
bipartisan. Ma veniamo a questo full-lenght. Si parte e la sua voce, accompagnata
da un benjo e un piano ripetitivi quasi ad ipnotizzarti, ci fa rinsavire
dicendo: Wake up perché ci
stanno "rubando la macchina", "uno
specchio" ed altro ancora (che sia forse il testo un ironico, ma
non troppo, libello anti-consumista?); poi per un attimo ci sospende su quella che
sembrerebbe, in parte, una citazione dell'opera dodecafonica "L'Egitto Prima Delle Sabbie" di
Franco Battiato, per riprendere, infine, con il ritmo sostenuto dell'atipica
cantilena di cui è fatto quest'intro. Poi la rabbia contro l'attuale
scena politica di Amore O Governo
sembra non potersi sfogare se non
in una breve parentesi caotica e un po' dinoccolata nel mezzo del più rassegnato sguardo pessimista
dove addirittura "la terra si scioglie". Nel Posto delle Fragole
l'atmosfera è frizzante, il suono piuttosto diretto e reso dolce da rotondità
pop, e proprio come nella pellicola capolavoro di Ingmar Bergman, gli
affetti -presumibilmente quello di una coppia dato che il testo dice: "solo io
e te nel posto delle fragole" - riusciranno a salvarci da un più o
meno definito male di vivere. La quarta (Un Tempio)
è una ballata morbida dove Marco Parente ci dice che ha "bisogno più di
essere che di esistere" e passando per la parola anarchia sembrerebbe
poi, volerci ricondurre a quell'unità indistinta e libera di cui tutti facciamo
parte, accompagnando il tutto con uno xilofono che porta a ben sperare.
Poi è la volta di Lampi sul Petto
forse la più in linea con lo storico stile del Nostro, dove sono di
casa cambi di tempo da far pensare ad un vero e proprio patchwork
di più brani, fino alla delirante seconda parte dove un sax impazzito si
accapiglia con un isterico piano (che fa molto Radiohead) fungendo da accattivante
sfondo ad un soave coro. Anche in questo pezzo si rinomina l'onnipresente
specchio che, essendo "amore sprecato", stavolta non riflette; e poi, sempre
nello stesso testo, rieccoli comparire -gli specchi appunto- che ora formano un
"lungo fiume". In Io Aeroporto
il piano staglia all'orizzonte un paesaggio tetro fino al ritornello che come un decollo
ci fa sentire più "leggeri",
per effettuare però un atterraggio di fortuna su un mare di acido lisergico.
Il settimo pezzo s'intitola: Colpo di Specchio
(come di nuovo lo specchio? Direte voi) ed è la traccia più lenta.
Comincia con un arpeggio ben ponderato di chitarra, poi le note di
piano centellinate sovrapposte ad un cupo xilofono ricamano un tappeto dall'aspetto solenne
per un testo - per altro in linea con tutto l'album - piuttosto ermetico
dove a farla da padrona sembrerebbe l'attesa, rivolta anche a noi dato che il
Nostro ci dice che "tra la gente" aspetta "che la gente." e
"seduto tra la gente" aspetta.
Il disco si conclude con Trilogia del Sorriso Animale: III Sorriso
che non poteva che (non)concludersi improvvisamente. Chissà se anche a febbraio
non si (ri)inizi improvvisamente, completando quest'opera che si
rinnova ascolto dopo ascolto ma che rispetto alle precedenti
forse non ci sazia a sufficienza.
Stefano Ialenti (iale81@libero.it)
|