Il primo album di Marco Parente, Eppur non basta,
aveva raccolto una notevole collezione di elogi da parte della stampa specializzata
italiana, grazie a canzoni di qualità insolita, sorrette da arrangiamenti
preziosi e originali, e interpretate da una voce dal timbro dolce e appassionato.
Insomma, uno di quei dischi che spinge all'uso (e all'abuso) di parole come
'poesia', 'arte' e 'personaggio di culto'.
Testa, dì cuore conferma che non si
trattava di un fuoco di paglia, e Parente è un credibile esponente di
quell'area della musica italiana in bilico fra canzone d'autore e rock,
frequentata da gente come La Crus e Cristina Donà, presente
qui in Senza voltarsi. Si avverte
chiaramente l'ambizione di volare alto, di confrontarsi con temi impegnativi
("Parola seria ma non troppo è Dio", esordisce Karma
Parente), di esprimersi con la massima intensità possibile
restando legato a un mondo emotivo intimo e personale.
Come nel lavoro d'esordio, non ci sono debiti musicali evidenti: aleggia a
tratti il nobile spettro di Jeff Buckley (nel brano che dà il
titolo all'album), e si può cogliere qualche strascico delle passate
avventure di Parente con i CSI nella trama pianistica di La
guarigione, ma si tratta di echi tutto sommato lontani. Parente ha
imboccato una strada sua, ed è in possesso di buone canzoni; può
apparire occasionalmente fin troppo ambizioso, ma è un rischio
inevitabile quando si viaggia sul confine tra canzone e poesia.
Lasciamolo lavorare, magari senza inondarlo di superlativi, augurandogli di
avere un pubblico abbastanza ampio da evitargli gli stenti economici
solitamente riservati agli eroi di culto, e abbastanza ristretto da lasciarlo
fuori dal tritacarne della musica di più largo consumo.
I buoni risultati non tarderanno a farsi vedere.
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